martedì 12 gennaio 2010

siamo tutti colpevoli di aver permesso questo.

A casa subito
All’assemblea di una scuola superiore occupata dove gli studenti mi hanno invitata ieri mattina a parlare della riforma si è alzato un ragazzo, a un certo punto, e ha detto: «Io sono di destra, ma sono stanco di essere associato a Berlusconi e ai suoi affari pubblici e privati. Sono di destra e vorrei esserlo senza dover difendere il socio di Putin e i suoi traffici di ragazzine. Sono pronto ad assumermi la mia responsabilità», ha concluso con l’enfasi dei suoi diciassette anni mentre un gruppetto attorno gli diceva bravo ed applaudiva. Al ritorno in redazione ho trovato sul tavolo la relazione di De Rita al rapporto Censis. Con il linguaggio che lo ha reso celebre De Rita racconta di un paese senza desiderio né legge: «pulsioni sregolate», «desiderio esangue», «dimensione sociale del peccato» e su su fino alla «personalizzazione del potere che ha distrutto l’autorità», la necessità di ripartire «dal singolo, dalla responsabilità individuale» per provare a ricostruire una casa comune crollata non solo metaforicamente, se non bastassero i simboli dello sfacelo basterebbe tenere il conto delle Domus di Pompei che crollano al ritmo di una al giorno, ieri un’altra, presto arriverà un miliardario dall’Est a dire nema problema, pago tutto io me la compro e metto a posto. Si potrebbe anche metterla all’asta su E bay come hanno fatto gli studenti di Alghero con la facoltà di Architettura: 5 euro, chi offre di più?



La responsabilità individuale. Il diritto di essere di destra (e di sinistra) senza essere costretti ogni giorno ad inseguire i colpi di sonno e di testa del sultano. Il ripristino della legge e - direbbe De Rita - del sanguigno desiderio di giustizia. Proviamo a cominciare noi, uno per uno. In un paese dove il presidente della Repubblica chiede rispetto delle sue prerogative e il coordinatore del Pdl Denis Verdini, invischiato nei più loschi affari recenti, risponde testualmente «ce ne freghiamo» proviamo noi a dire basta, che noi non ce ne freghiamo, invece: che vogliamo che questa gente se ne vada subito. Direte: e dopo? Certo che la prospettiva indicata da Casini - Gianni Letta premier - non è esattamente il tipo di cambio di passo di cui stiamo parlando. Gli scenari sono aperti, però. Il futuro è nelle mani di chi lo determina. C’è il voto, che resta sempre la via maestra. C’è soprattutto la valutazione del Capo dello Stato, che giudicherà cosa sia utile e opportuno nella cornice delle regole istituzionali. C’è il ruolo dell’opposizione, che ha qui una straordinaria occasione per battere un colpo, possibilmente forte, possibilmente unita. Un’occasione storica, via dai calcoli di piccolo cabotaggio, dalle convenienze personali e di partito. C’è l’interesse del paese: un paese esangue. Davvero allo stremo.

-------------------------------

Intanto, allora: sfiduciamolo noi. Il primo passo è questo: vada a casa, scelga tra le molte che ha quella che preferisce. Facciamolo da destra e da sinistra, insieme a quel ragazzo. L’omologazione è una trappola, dice oggi in una bella intervista a Tullia Fabiani il comico con handicap David Anzalone, lo Zanza. Se proprio dobbiamo votare un capocomico, votiamo Zanza. In attesa del 14, facciamo sentire la nostra voce. Ci meritiamo un paese migliore.

http://concita.blog.unita.it/a-casa-subito-1.258285



PERCHE' LA POLITICA ITALIANA FA SCHIFO...............
Salvatore Curatola: Cesare, nel De Bello Gallico,
affermava "dividit et imperat" ed è proprio questo che sta succedendo. Basta pensare agli slogan xenofobi della lega, a quel dichiararsi paladini di un Crocifisso per poi attuare tutto l'opposto che la religione vorrebbe che si facesse.
La soglia dell'attenzione di noi Italiani è molto bassa,non riusciamo più a carpire contraddizioni ideologiche anche palesi.La politica non esiste più, esistono solo schieramenti che bramano il potere affidando le loro fortune a società specializzate in sondaggi e promozione.Il decadimento sociale è ancheperorato da media in mano a gente pagata non per fare la professione ma per riferire ciò che più conviene al loro padrone.Il problema è chi si accorge di tuttociò resta sempre più isolato e senzastrumenti di denuncia, non sarà facile uscire da questo buio!




Contro la televisione. Una riflessione antirazzista


Che la televisione abbia la capacità di influenzare le coscienze è una convinzione diffusa: essa si trova in tutte le case e spesso è l’unica fonte di informazioni. Non sempre è chiaro, però, attraverso quali meccanismi ci sia questa influenza e perché la gente si ostini a guardarla.

Con questa breve riflessione mi propongo se non di rispondere a queste domande, quantomeno di fornire degli stimoli.
Parlando della televisione non si deve pensare solo all‘“oggetto” TV. Dietro la “scatola nera” che sta sui tavolini delle nostre case c‘è un sistema di comunicazione, persone, idee ed ideologie. La televisione è da intendere come un insieme di pratiche sociali che, in quanto tali, sono analizzabili, criticabili e passibili di modifica.

Sostengo che la televisione sia un insieme di pratiche ad uso del potere che hanno la capacità di creare legittimità al potere stesso e di omologare il pensiero, costringendolo a vivere una realtà ben precisa.


La televisione è un dispositivo del potere, ovvero un insieme eterogeneo di elementi che produce verità e le distribuisce nella società.

Come spiego oltre, queste verità sono distanti dalla realtà concreta delle cose, dei fatti; tuttavia esse hanno un valore di verità, perché diventano, nelle teste delle persone, credenze. In che modo la televisione fa questo? La “magia” della televisione è costituita dal fatto che, nello stesso momento, il messaggio che propone ha suoni, colori, forme, fisicità quasi come nella vita reale. Nel momento in cui viene accesa ci si trova in una situazione a 360°, e come se fossimo là si provano emozioni, sensazioni, desideri.

La connessione di questi fattori – le immagini, le parole, eccetera – viene costruita in modo che si presenti come una realtà, alla quale noi siamo indotti a credere perché ci stimola. È attraente, come realtà, perché non implica una partecipazione diretta, non serve sforzo, non c‘è fatica, non necessita attenzione. Leggere un libro, ascoltare la radio, documentarsi…sono tutte azioni che richiedono tempo, dedizione, curiosità, stimolo, confronto. Tutte cose che nel nostro mondo mercificato e stile di vita furioso sono impensabili. Ecco, dunque, che la televisione magicamente ci dà tutto.

Basta premere il pulsante. E, con i diversi canali, ci fa anche credere che abbiamo la possibilità di scelta.
Tuttavia la televisione non è una magia. Bensì, come dicevo, una pratica sociale che se ben intesa può essere modificata.

Sostengo sia necessario modificarla poiché la realtà che viene creata con questo mezzo è estremamente semplificata, superficiale e pericolosa in quanto si sostituisce alla nostra capacità di emozionarci, di scoprire, di confrontarci. In tal senso la televisione asservisce il potere, ne è un dispositivo: dandoci dei contenuti virtuali ci impedisce di cercarli nel nostro quotidiano. E ci rende pericolosamente soddisfatti della falsa realtà che ci regala.

Questa riflessione vuole anche essere una critica concreta e non solo teorica al dispositivo-televisione. Prendo un esempio, tra i tanti possibili, di come la televisione possa pericolosamente conformare le coscienze e produrre realtà fittizie. Parlo, in pratica, di come attraverso questo mezzo vengano create idee razziste basate su dati molto distanti dalla realtà.
La diversità culturale è diventata ultimamente una delle paure strutturali della nostra società.

Il Rom, il nero, il musulmano, l’omosessuale, l’immigrato ed altri ancora sono diventati i ricettacoli di timori diffusi, di frustrazioni, fino ad essere soggetti a controlli esasperati e a violenze. In un certo senso la paura per i “diversi” è una realtà fittizia, costruita attraverso vari mezzi, che serve ad oscurare problemi concreti e a far deviare l’attenzione altrove.

La paura, poi, serve al potere che in tal modo inasprisce i controlli, limita la libertà individuale e omologa il pensiero e le azioni creando legittimità a se’ stesso in quanto si propone come unico garante della sicurezza.
Il dispositivo-televisione è al centro di questo meccanismo di costruzione della paura. Essendo lo strumento più popolare e diretto, e producendo verità a cui tutti credono, la TV ha distribuito a livello nazionale una quantità di informazioni e dati che pretendono di sostenere che il nostro paese sia pericolosamente sull’orlo di una colonizzazione da parte degli “altri”. “Sbarchi in massa di clandestini”, “Città assediate dalle Moschee”, “Ronde di Rom per le strade”, parlo di cose di questo genere.
Molto brevemente, sostengo che la maggior parte di queste notizie siano false o, meglio, siano assemblate in modo strategico per rendere più ampie di quanto in realtà siano.

Non hanno, cioè, nessuna aderenza con la realtà e nessun fondamento scientifico, statistico, sociologico o culturale.

Accenno solo al fatto che i migranti presenti nel nostro paese sono una percentuale davvero bassa della popolazione, la maggior parte delle azioni criminali viene compiuta da italiani o da “sistemi” mafiosi che fanno impallidire i furti compiuti da migranti. Non c‘è nessuna invasione e nessuna colonizzazione da parte dei “diversi”. La paura verso di loro è assolutamente creata, costruita. Come?
La programmazione televisiva viene impostata in modo che le notizie che riguardano soggetti appartenenti ad altre confessioni religiose e nazionalità (soprattutto extraeuropee) abbiano più risalto rispetto ad altre (come ad esempio le reali cause della crisi economica mondiale, i provvedimenti legislativi del Governo che non passano la procedura parlamentare – e quindi l’istituzione “democratica”, la caduta libera e triste della ricerca italiana).

Gli “special” sui clandestini, il peso dato alla voce di partiti politici xenofobi (come la Lega Nord), le minuzione informazioni sui militari stanziati a difesa (da chi?) delle città italiane…tutto questo, tramite la televisione, acquisisce un senso commerciale, popolare. I telegiornali, ad esempio, lontani dal fornire informazioni plausibili, costruiscono la loro scaletta e inventano i loro titoli in maniera sensazionale ovvero in modo tale da creare la “sensazione”.

La notizia che riguarda i migranti spesso si ferma al titolo shock senza approfondimento, o quando questo c‘è è l’opinione di un ministro o di un politico che imposta il discorso come “un problema da risolvere”.

Anche quando le notizie non coinvolgono direttamente il migrante, questo viene posizionato in uno spazio problematico, come se fosse la causa e non uno dei tanti attori dell’evento: quando i cittadini africani sono stati massacrati in Campania, per un bel pezzo l’attenzione televisiva si rivolgeva al “problema ella convivenza con gli immigrati” invece di riflettere sul far west camorrista della regione.

Ancora, i servizi spesso trasmessi nei mesi estivi che riguardano i furti negli appartamenti operati, chissà perchè, quasi solo da albanesi durano in media molti minuti in più rispetto ad altri servizi trasmessi, al fine di creare uno stato d’ansia parossistico nel pubblico che, attraverso i mille particolari della vicenda, empatizza con le vittime e condanna incommensurabilmente i ladri.

Eppure, nessuno spiega delle organizzazioni mafiose italiane che in Albania dirigono i traffici e gli stessi furti. I Rumeni, negli ultimi mesi, hanno sostituito gli Albanesi nella classifica dei “cattivi” e vengono spesso confusi dalla TV con i Rom e viceversa, senza distinguere il fatto che non tutti i Rom sono Rumeni e viceversa e che, ci piaccia o no, i cittadini della Romania non sono extracomunitari ma europei come noi o i francesi (anche se nego che l’essere europeo voglia dire qualcosa di qualitativamente e culturalmente migliore).

Per passare, infine, ad altri “diversi”, i matrimoni tra omosessuali spesso vengono presentati come una notizia buffa, ironica, quasi da circo, come la donna baffuta e il nano che si sposano: non viene presa sul serio un’unione che significa un passo avanti nelle libertà civili.
Insomma il dispositivo-televisione produce notizie sterili, senza approfondimento, senza profondità.

Vengono utilizzate strategie simboliche, linguistiche, associazioni di idee e di immagini che nell’insieme creano un quadro distorto che ha solo il senso di alimentare la distanza dalla realtà e servire il piatto freddo del timore.

In altre parole, il dispositivo-televisione è intrinsecamente razzista, in quanto suddivide la realtà attraverso schemi rigidi, semplificandoli ed etichettandoli, e dandogli una gerarchia di valori.
Concludo dicendo che quanto ho scritto è davvero una goccia nel mare di distorsioni che la TV produce, e molte se ne possono aggiungere.

Tuttavia l’impostazione culturale che il paese in cui viviamo sta avendo non può lasciare indifferenti rispetto al problema del razzismo.

Storicamente la paura del diverso si è associata a crisi forti dello Stato e dell’economia e a conseguenti derive fasciste.

Non è il caso di consultare la sfera di cristallo o di invocare un passato che ritorna per rendersi conto che siamo già dentro ad un regime autoritario avanzato che, col beneplacito della scheda elettorale, ha iniziato a plasmare i nostri comportamenti e pensieri.

Spegnere la televisione non è solo un gesto di autocoscienza individuale.

Può anche essere una risposta politica ad un inquietante totalitarismo.

Umberto Pellecchia
u.pellecchia@gmail.com

(nda) qui il concetto di dispositivo, prendendo spunto da filosofi e sociologi che si sono proposti come oggetto d’analisi il potere ed i suoi meccanismo socio-culturali.
Senza andare a leggersi la discreta quantità di pubblicazioni scientifiche sull’argomento immigrazione – che distruggono tutte le possibili argomentazioni televisive – basta a mio parere guardarsi attorno e chiedersi:

siamo INVASI dagli immigrati?

Quante moschee ci sono in una città media, rispetto alle Chiese cattoliche?




Dell’Utri, “uomo di zio Bino”
CIANCIMINO JR RIVELA AI PM DI PALERMO
di Peter Gomez
Che Bernardo Provenzano lo considerasse affidabile lo aveva già raccontato un suo ex braccio destro, il boss di Caccamo, Nino Giuffè.
Tra il 1993 e il 1994, aveva ricordato il super pentito, Zio Bino al termine di una mezza dozzina di riunioni tra capimafia, aveva detto: "Siamo in buone mani, ci possiamo fidare".
Ma l'eventualità che tra il senatore del Pdl, Marcello Dell'Utri, e l'anziano uomo d'onore corleonese, per dieci anni alla guida di Cosa Nostra, vi fossero stati degli incontri a tu per tu era finora rimasta solo nel campo delle ipotesi. Chi adesso invece spariglia le carte e dà per sicuri quei summit, in cui si discuteva su come risolvere politicamente i molti problemi della mafia, è Massimo Ciancimino, il figlio di Vito, l'ex sindaco di Palermo protagonista di un pezzo importante della presunta trattativa tra Stato e i clan siciliani dei primi anni Novanta.

Dice Ciancimino Junior: "Tra di loro c'erano rapporti stretti, molto stretti. Io so che si conoscevano che c’era un rapporto diretto.
Tant’è che per mio padre, quando aveva bisogno di avere favori da quel partito (Forza Italia ndr) o notizie, bozze di legge, il punto di riferimento per era sempre il Lo Verde (uno degli alias di Provenzano ndr).
Spesso anche tramite il Lo Verde mi sono arrivati a casa disegni di legge a casa, manovre su cose (il sequestro ndr) dei beni…".
È questa, forse, la rivelazione più importante contenuta nei 22 verbali del giovane Ciancimino, depositati due giorni fa (con parecchi omissis) al processo per la mancata cattura di Provenzano contro l'ex capo del Ros dei carabinieri, generale Mario Mori.
Per mesi davanti ai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Ciancimino Junior ha provato a riscrivere un pezzo di storia d'Italia, consegnando i documenti conservati da suo padre, i pizzini ricevuti da Provenzano, e soprattutto le spiegazioni su quanto era accaduto in Sicilia affidate da don Vito a un libro che l'ex sindaco democristiano stava scrivendo prima di morire.
Così Massimo Ciacimino parla dei misteri della storia italiana recente: da Ustica al caso Moro, dagli omicidi di Michele Reina e Pietro Scaglione a quello di Piersanti Mattarella. E ricostruisce pure il versamento di presunte tangenti date "da Romano Tronci all'onorevole Enrico La Loggia" (ex Dc, poi ministro di Forza Italia), e racconta di "una somma di denaro (duecentocinquantamila euro)" consegnata nel 2005 un commercialista perché fosse girata al presidente della Commissione Affari Costituzionali del senato, Carlo Vizzini.
Dalla moviola della sua memoria esce insomma il dipinto verosimile, ma ancora tutto da verificare, dell'area grigia.
Di quella zona di confine tra la mafia e una borghesia siciliana da sempre abituata a convivere e a fare affari con i boss. Un filo sottile che parte da Palermo per arrivare a Roma e che poi, secondo Massimo Ciancimimo, si riannoda ad Arcore dove Dell'Utri, già trentacinque anni fa, "sicuramente aveva gestito soldi che appartenevano sia a Stefano Bontade (il capo della mafia palermitana ucciso nel 1981 ndr) che a persone a lui legate".
A pm Ciancimino junior ha offerto molte piste per i possibili riscontri: nomi di società tra le famiglie mafiose dei Bonura e dei Buscemi (questi ultimi già risultati soci del gruppo Ferruzzi di Ravenna), l'identità di commercianti di diamanti testimoni dei presunti passaggi di capitali, appunti di suo padre. Ma per il momento tutto è ancora coperto dal segreto investigativo.
Agli atti finisce invece il racconto del dopo.
Di quello che accadde quando nel 1992 Cosa Nostra uccide l'eurodeputato Salvo Lima, l'andreottiano che fino a quel momento aveva fatto da tramite tra la grande politica e le cosche.
A quel punto don Vito, già arrestato e condannato, ma ancora libero, accarezza l'idea di prendere il suo posto. Con Provenzano vanta un'amicizia antica. I carabinieri del Ros, che vogliono catturare Totò Riina, bussano spesso alla sua porta.
Don Vito pensa così di poter diventare il nuovo punto d'equilibrio tra Stato e mafia. Ma la situazione presto precipita. Lui va in carcere e viene sostituito. "Da chi?
Da qualcuno che l’aveva scavalcato?" domandano i pm. Ciancimino junior risponde sicuro: "Mio padre disse che Marcello Dell’Utri, una persona che non stimava, perché la riteneva troppo impulsiva, poteva essere l’unico che poteva gestire una situazione simile". E le sue, secondo il figlio dell'ex sindaco, non erano ipotesi. Perché, nel corso degli anni, del rapporto diretto tra Provenzano e l'ideatore di Forza Italia, lui avrebbe avuto più volte riscontri diretti.
Per esempio un biglietto ricevuto dalle mani del boss nel settembre 2001. Nel dattiloscritto si legge:
"Carissimo Ingegnere (don Vito Ndr) ho letto quello che mi ha dato M (Massimo ndr)... Mi è stato detto dal nostro Sen e dal nuovo Pres che spigeranno la nuova soluzione per la sua sofferenza.
Appena ho notizie ve li farò avere, so che l’av. è benintenzionato.
Il nostro amico Z ha chiesto di incontrare il Sen.
Ho letto che a lei non ha piacere e bisogna prendere tempo si tratta di nomine nel gas, mi ha detto che vi trovate in Ospedale che la salute vi ritorni presto e che il buon Dio ci assista".
Massimo Ciancimino, che ha già potuto apprezzare le capacità d'intervento del padre sul mondo Fininvest quando era riuscito a far assumere, nel giro di 20 giorni, un'amica a Publitalia , traduce. Il "nostro sen" è Dell'Utri, il "nuovo pres" è invece il governatore Siciliano Totò Cuffaro, mentre "l'av" è l'avvocato Nino Mormino, difensore di tutto il ghota di Cosa Nostra, legale di fiducia di Dell'Utri e, in quel momento vice-presidente della commissione giustizia della Camera.
Tre politici già finiti sotto inchiesta per fatti di mafia (i primi due condannati in primo grado, il terzo archiviato) che, secondo Ciancimino junior, cercavano di darsi da fare perché l'ultima parte di pena che ancora costringeva l'ex sindaco agli arresti domiciliari, fosse cancellata da un provvedimento di clemenza.
Anche per questo nelle mani di Ciancimino, altre volte anche tramite Provenzano, a partire dal '96 arrivano spesso gli articolati pro-mafia, poi presentati in parlamento.
O almeno così dice Ciancimino Junior che spiega anche come "il nostro amico Z", fosse suo cugino, Enzo Zanghi.
Un uomo già finito nel mirino degli investigatori nel 1998, quando due mafiosi legati a Provenzano, in alcune intercettazioni avevano parlato di lui come della persona che chiedeva di votare per Dell'Utri alle elezioni europee.
Certo, non tutte le parole di Ciancimino Junior vanno prese come oro colato. Gli investigatori stanno cercando di capire come mai già in bigliettini del 2000, quando Dell'Utri era solo deputato, comparisse un "amico senatore" che, secondo il testimone, sarebbe sempre il braccio destro di Berlusconi.
Ma il dato è che per ora le sue parole sembrano preoccupare molte persone.
Tanto che nei giorni scorsi, il giovane Ciancimino ha detto a Il Fatto Quotidiano di essere stato avvicinato da un emissario di Dell'Utri, forse proprio in vista di una possibile convocazione al processo d'appello contro il senatore azzurro.
A Palermo e non solo, si trattiene il respiro.


Quando Schifani
faceva l’autista


“IO, RENATO, TOTÒ CUFFARO
E QUEGLI INCONTRI AL BAR”
di Marco Lillo

Per capire chi è Massimo Ciancimino bisogna passeggiare con lui tra il Pantheon e piazza di Spagna, dove ha abitato con il padre quando don Vito era agli arresti domiciliari. Le migliori boutique, da Cenci a Car Shoe, se lo contendono. I vip e i politici, magari un po’ sfuggenti ora che è famoso, lo salutano. Nei ristoranti alla moda, come Maccheroni o Riccioli Caffè lo accolgono come un’autorità e lo abbracciano chiedendogli del piccolo Vito, il bambino che porta il nome del famigerato nonno sindaco mafioso e assessore all’urbanistica del sacco di Palermo.
Massimo Ciancimino, prima di essere arrestato nel 2006 con l’accusa di aver riciclato il tesoro del padre era un rampollo della “Palermo bene” che lo apprezzava proprio per le stesse ragioni per i quali i pm volevano arrestarlo. Nonostante il padre fosse stato condannato per mafia, gli avvocati in cerca di clienti e le belle figliole in cerca di sistemazione mormoravano al suo passaggio: “Il padre gli ha lasciato un patrimonio di centinaia di milioni di dollari in Canada”. Lui non faceva nulla per smentire la leggenda e parcheggiava il suo Ferrari sul molo per poi salire su un fuoribordo Itama 55 con il quale incrociava tra le Eolie e le Egadi. Democristiani e forzisti lo consideravano un amico.
E ora lui sta riversando ai magistrati tutto quello che ha visto e sentito in tanti anni passati a cavallo tra mafia e politica. Davvero imperdibile il verbale del 22 dicembre scorso nel quale Ciancimino jr racconta ai pm come ha conosciuto Cuffaro e Schifani: “Nel 2001, avevo incontrato l’Onorevole Cuffaro a una festa elettorale.... poi mio padre mi ha ricordato che faceva l’autista all’ex ministro Calogero Mannino quando pure io accompagnavo mio padre alle riunioni.
Poi ho ricollegato: quando accompagnavo mio padre dall’onorevole Salvo Lima (prima in rapporti con i boss e poi ucciso nel 1992 dalla mafia, secondo i pentiti Ndr) spesso rimanevamo io fuori dalla macchina e c’era Renato Schifani che guidava la macchina a La Loggia (non Enrico ma il vecchio Giuseppe, importante politico Dc eletto presidente della Regione Sicilia e poi deputato Ndr).
Io rimanevo con mio padre e Cuffaro guidava la macchina a Mannino. Diciamo i tre autisti erano questi. Oggi ovviamente gli altri due hanno fatto ben altre carriere, io no. Andavamo a prendere cose al bar”. E poi la chiusa da attore consumato: “C’è chi è più fortunato nella vita!”. Non c’è da scandalizzarsi se, come ha raccontato Lirio Abbate, è stato proprio il figlio di don Vito a consigliare ad Angelino Alfano quando non era ancora ministro ed era ancora calvo, un professore in grado di restituirgli la chioma con un trapianto. Il fatto è che Massimo Ciancimino è simpatico e maledettamente sveglio. Con un padre padrone che dava ripetizioni a Provenzano al mattino e lo legava alla catena alla sera per frenare la sua irrequietezza, ha dovuto tirare fuori presto la sua personalità. Mentre il fratello più grande studiava per il concorso in magistratura (fallito all’orale), lui pensava a fare soldi.
Quando lo arrestano aveva appena ceduto la quota ereditata dal padre nella società che si occupava della metanizzazione in Sicilia (con la benedizione dei boss). L’altra socia era la nuora di un procuratore antimafia. E molti politici di Forza Italia avevano ottenuto finanziamenti grazie a quella società.

Dopo l’arresto tutti lo mollano. Il giovane Ciancimino si sente tradito e, dopo la condanna in primo grado, comincia a raccontare una parte di quello che sa. Si dice che la parte più interessante dei verbali sia ancora coperta da omissis. E che lì si parli anche di un certo Silvio Berlusconi.


Nessun commento:

Posta un commento